Per cibi ultra processati, in inglese noti con la sigla UPF, facciamo riferimento a tutti quegli alimenti complessi che hanno subito numerose trasformazioni industriali nel processo produttivo che li porta sulle nostre tavole. I cibi UPF contengono numerosi ingredienti diversi, tra cui: zuccheri aggiuntigrassi idrogenati e additivi come addensanti e coloranti. Ne fanno parte le merendine e i gelati confezionati, le bevande zuccherate e gassate, le caramelle, i pani industriali, le zuppe istantanee, tutti prodotti che per alcuni possono arrivare a rappresentare il 25-50 per cento del consumo giornaliero di cibo.

Secondo una classificazione attualmente valida, la classificazione NOVA, questa tipologia di alimenti rientrano in classe 4. NOVA è un sistema di classificazione degli alimenti, suddivisi in 4 categorie, basato sul grado di lavorazione industriale messo a punto da un gruppo di studio brasiliano. NOVA definisce le lavorazioni come “i processi fisici, chimici e biologici che interessano i vari alimenti una volta che siano separati dalla natura e prima che siano consumati o utilizzati nella preparazione di piatti.

NOVA distingue quattro categorie di alimenti:

  • cibi non trasformati o minimamente lavorati.Vi rientrano acqua, ‘parti commestibili di piante (semi, frutti, foglie, steli, radici)’, funghi e alghe. Ma anche i prodotti di origine animale più semplici, come uova, latte, carni non lavorate,
  • ingredienti per la cucina domestica. Sono gli alimenti basilari per la preparazione e il condimento dei cibi. Oli e grassi, aceto e sale, zucchero, erbe aromatiche e spezie, etc.
  • alimenti trasformati (processed food). Fanno parte di questo gruppo alimenti consumati quotidianamente. Pane, pasta, formaggi, carni e pesci nelle lavorazioni più semplici, conserve vegetali,
  • alimenti ultraprocessati (ultra-processed food).Snack ricchi di grassi, zuccheri aggiunti e/o sale, dolciumi, bevande zuccherate. Senza trascurare würstel e altri prodotti realizzati con carni separate meccanicamente e conservanti diversi dal sale (es. nitriti, sorbati), piatti pronti.

Proprio in classe 4 troviamo i cibi ultra processati che hanno dimostrato di essere fattori di rischio per l’insorgenza di numerose patologie poiché si tratta di cibi con profili nutrizionali squilibrati, i quali espongono i consumatori di ogni età ad apporti eccessivi di grassi e/o grassi saturi, zuccheri semplici e/o sodio, nonché sostanze chimiche usate come additivi alimentari.

Ecco allora che in progetto nutrizionale vario ed equilibrato questi alimenti dovrebbero essere inseriti al massimo come saltuaria eccezione, e non come una abitudine.

BIBLIOGRAFIA

  1. Monteiro CA, Cannon G, Levy RB et al. The star shines bright.
    [Food classification. Public health] World Nutrition January-March 2016, 7, 1-3, 28-38

Il caffè è una delle bevande più diffuse in Italia e nel mondo: è lecito quindi interrogarsi sugli effetti di questo alimento sulla nostra salute. Diversi studi hanno già dimostrato che un moderato consumo di caffè può avere un impatto positivo sulla nostra salute in termini di riduzione del rischio di insorgenza di patologie come diabete tipo II, malattie neurologiche e alcuni tipi di tumori come quello del colon-retto.

Alcuni recenti studi tra i quali un lavoro appena pubblicato sulla rivista Nutritions, realizzato da un team di ricercatori dell’Università di Bologna e dell’Irccs Azienda ospedaliero-universitaria di Bologna – Policlinico di Sant’Orsola, si sono concentrati sulla correlazione tra il consumo di caffè e rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. Questo studio ha dimostrato che un consumo moderato di caffè, e in particolare non superiore alle 2/3 tazzine al giorno, ha un effetto benefico sulla nostra salute. In particolare sembra che determini un abbassamento sia dei valori pressori centrali e periferici che della variazione di pressione tra la pressione massima e minima.

Lo studio ha preso in considerazione circa 1500 pazienti,  opportunamente divisi tra non bevitori di caffè, chi ha dichiarato di assumere una tazzina di caffè al giorno, chi due, tre e infine chi più di 3 tazzine al giorno. E’  emerso che chi assumeva più di 3 tazzine di caffè al giorno dimostrava valori pressori più alti del gruppo che non beveva caffè, mentre chi dichiarava di assumere 1, 2 o 3 tazzine al giorno aveva valori pressori più bassi rispetto sia al gruppo no caffè che al gruppo che ne beveva più di 3 quotidianamente.

Cosa ci dicono questi risultati?

Il messaggio non è, e non deve essere, che il caffè faccia bene a prescindere, ma che il caffè consumato in dosi modeste (non più di 2/3 tazzine al di) non aumenta i valori di pressione sanguigna: questo messaggio è emerso molto chiaramente dallo studio.  Inoltre, contribuendo a diminuire i livelli di pressione è auspicabile che negli anni si abbia un effetto protettivo nei confronti dell’insorgenza di patologie cardiovascolari.

Superando invece le tre tazzine al giorno allora gli effetti del caffè sulla nostra salute iniziano ad essere nocivi: la pressione aumenta sia a livello periferico che centrale e il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, a lungo andare, non può che aumentare.

In estrema analisi è bene sapere che il caffè non è un alimento da demonizzare, ma, in assenza di specifiche controindicazioni,  va comunque sempre consumato con moderazione.

Bibliografia

  1. Cicero F G, Fogacci F, Self-Reported Coffee Consumption and Central and Peripheral Blood Pressure in the Cohort of the Brisighella Heart Study, Nutrients 2023, 15, 312.

Lo studio osservazionale NutriNet-Santè, recentemente pubblicato sul British Medicine Journal, ha posto la lente di ingrandimento sulla correlazione tra l’uso di dolcificanti artificiali come aspartame, acesulfame K e sucralosio e il rischio di sviluppare coronaropatie e malattie cardiovascolari.

Un team di ricercatori dell’istituto francese per la salute e la ricerca medica (Iserm) ha analizzato un campione di più di 100000 soggetti in un arco temporale di 12 anni, sottoponendo via web ai partecipanti allo studio,  un diario alimentare molto dettagliato che includeva tutte le fonti alimentari (bevande, dolcificanti da tavola, alimenti) che potessero contenere i citati dolcificanti.

Da questo studio è emerso che il 37% dei partecipanti faceva uso di dolcificanti artificiali, con un consumo medio di 42,46 mg/die. Sono poi stati creati due gruppi in base alle quantità di dolcificanti presenti nella dieta dei partecipanti allo studio: un gruppo “a basso consumo” con una media di assunzione di dolcificanti artificiali di 7,46 mg/die e un secondo gruppo “ad alto consumo” con una media di assunzione di 77,6 mg al giorno.

Cosa è emerso di veramente significativo?

Prima di tutto, il gruppo “ad alto consumo” presentava un BMI (Body Mass Index) più alto rispetto ai pazienti che hanno dichiarato di non fare uso di dolcificanti artificiali.

In secondo luogo, l’assunzione di aspartame è risultata correlata a un aumentato rischio di eventi cerebrovascolari, mentre quella di acesulfame k e il sucralosio ad un maggior rischio di malattia coronarica, rispetto a chi non ne faceva uso.

Non solo: il gruppo “ad alto consumo” si è ammalato di più rispetto a quello “a basso consumo”.

Essendo uno studio osservazionale non si può parlare di relazione causa effetto, tuttavia i dati suggeriscono una possibile associazione tra il consumo dei dolcificanti artificiali studiati e l’aumentato rischio di alcune malattie.

Serviranno altri studi per confermare questi dati, ma quello che emerge è che i dolcificanti artificiali, assunti in sostituzione dello zucchero spesso in modo incongruo, non sono la soluzione al problema del sovrappeso e potrebbero addirittura rappresentare un rischio per la salute.

Dott. Giovanni Cioni

BIBLIOGRAFIA

1)     Debras C et al, Artificial sweeteners and risk of cardiovascular diseases: results from the prospective NutriNet-Santé cohort, BMJ 2022;378:e071204

 

Secondo i dati del 4° Italian Barometer Obesity Report, realizzato da IBDO Foundation in collaborazione con Istat, Coresearch e Bhave e con il contributo di Novo Nordisk nell’ambito del progetto Driving Change in Obesity, in Italia oltre il 46% degli adulti e il 26,3% tra bambini e adolescenti è in eccesso di peso e 6 sono i milioni di persone con obesità, circa il 12% della popolazione adulta residente in Italia. In questa fascia d’età, le donne mostrano un tasso di obesità inferiore (11,1%) rispetto agli uomini (12,9%); più marcata la differenza nei bambini e adolescenti, dove il 23,2% delle femmine è in eccesso di peso rispetto al 29,2% dei maschi.

Esistono differenze anche a livello territoriale a svantaggio del Sud e delle Isole, qui l’eccesso di peso risulta essere più accentuato soprattutto tra i minori: sono ben il 31,9% al Sud e il 26,1% nelle Isole i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso, molti di più quindi rispetto al 18,9% dei minori residenti del Nord-Ovest, al 22,1% del Nord-Est e al 22% del Centro. Anche negli adulti il tasso di obesità mostra un accentuato gradiente Nord-Sud: 14% al Sud, 13,6% nelle Isole, 12,2% nel Nord-Est 10,5% nel Nord-Ovest e Centro.

L’obesità è una condizione che predispone fortemente allo sviluppo di patologie sistemiche anche gravi come diabete mellito di tipo II, ipertensione, dislipidemie, patologie cardiovascolari, patologie dell’apparato muscolo-schelettrico e anche alcuni tipi di tumori. Spesso però si ha un’auto-percezione errata di quelle condizioni che sono l’obesità e il sovrappeso; infatti l’11% degli adulti obesi e il 54,6% degli adulti sovrappeso si considerano normopeso.

Stessa cosa se non peggio accade nei genitori di bambini e adolescenti sovrappeso/obesi. L’obesità infantile in particolare è una patologia che incide fortemente sulla qualità della vita del bambino e dell’adulto che diventerà andando ad aumentare le probabilità di sviluppare le patologie che tipicamente insorgono nel paziente obeso adulto, con un fattore di aggravamento più alto. In sintesi i bambini obesi si ammaleranno prima e con sintomi più gravi a un paziente adulto obeso che ha sviluppato l’obesità in età più avanzata.

L’obesità è una malattia multifattoriale, che riconosce come causa un mix di fattori sociali, economici e personali in cui l’apporto alimentare e l’attività fisica svolgono un ruolo rilevante nella determinazione e nella terapia.

Va saputa riconoscere e non ignorata per non incorrere nelle patologie che sono tipiche del paziente obeso o in sovrappeso. L’approccio deve sempre essere multidisciplinare e deve vedere la collaborazione di più figure professionali al fine di affrontare e trattare nel modo più efficace tutte le componenti che possono aver determinato l’insorgenza di questa patologia.

Dott Giovanni Cioni

Le sfide globali che si stanno presentando per i decenni a venire sono numerose: espansione demografica, riduzione delle risorse e aumento dei costi della vita.

Secondo le ultime stime riguardanti lo sviluppo demografico del nostro pianeta, prima del 2050 dovremmo superare i 9 miliardi di persone. Considerando che già oggi circa 1 miliardo di persone soffre la fame, è compito della scienza trovare risposte a questa sfida: sfamare una popolazione mondiale in costante crescita.

Questa vertiginosa crescita demografica, esponenziale dal secondo dopoguerra ad oggi, e la relativa crescita economica dei paesi che siamo abituati a chiamare “del terzo mondo” sono i motivi per cui stiamo rapidamente esaurendo le risorse del nostro pianeta. Quindi è compito della politica riuscire a conciliare sviluppo economico e salvaguardia delle risorse naturali.

Gli ultimi mesi, infine, hanno esasperato una situazione che già si stava aggravando prima dello scoppio del conflitto Russo-Ucraino, ovvero l’aumento dei costi della vita. In un contesto in cui i rincari colpiscono tutti gli ambiti della vita compreso il settore agroalimentare, è compito degli esperti proporre alternative nutrizionali valide ai cibi nobili come la carne e i derivati che stanno subendo e subiranno i rincari maggiori.

Tradotto nei prossimi decenni servirà più cibo, a minor costo e a basso impatto ambientale.
Va detto che le risposte a problemi di questo calibro non sono mai uniche e anche in questo caso una, tra le tante possibili, sono gli insetti.

Non dimentichiamoci che oggi circa 2 miliardi di persone includono già insetti nella loro dieta, e anche in Europa qualcosa si sta muovendo dato che negli ultimi mesi sono stati autorizzati 3 specie di insetti a uso alimentare: Locusta Migratoria, Larve della farina e per ultimi, recentissimi, i grilli domestici (Acheta Domesticus). Secondo l’U.E. gli insetti rientrano nella definizione del “Novel Food” – Regolamento (CE) 2015/2283.

Parlando dei vantaggi, gli insetti possono essere una scelta alimentare valida per rispondere alle sfide del futuro che abbiamo visto, sia da un punto di vista nutrizionale che ambientale. E’ dimostrato infatti che gli insetti forniscano cibo altamente nutriente, in particolare proteine di origine animale paragonabili se non superiori a quelle presenti nel a carne e nel pesce. Inoltre l’impatto ambientale che determina la produzione di 1 kg di insetti commestibili è molto più economico che produrre 1 kg commestibile di carne, sia in termini di consumo di acqua, CO2 e suolo.

In sostanza il grande, e se vogliamo unico, ostacolo da superare è il pregiudizio culturale, di difficile superamento anche perché forse manca la giusta informazione. Siamo abituati a pensare agli insetti a uso alimentare come vengono preparati nei paesi asiatici, suscitando inevitabilmente un certo grado di disgusto secondo gli standard della cucina occidentale. Dobbiamo sapere però che il vero futuro dell’alimentazione a basi di insetti non prevede il loro utilizzo come alimenti interi essiccati o congelati, ma in polvere addizionati alle farine. Molte grandi ditte alimentari italiane stanno iniziando a interessarsi a questo mercato e chissà che a breve non inizino a comparire sugli scaffali dei nostri supermercati farine addizionate a proteine derivate da insetti.

Giovanni Cioni